Correva l’anno 2006 quando ho conosciuto G.
Io ero in quella fase che passano molti gheis, ossia avevo visto più piccioni di un cinese in Piazza San Marco a Venezia ma dicevo a me stesso che era una fase, che era uno sfizio sessuale, che avrei formato una solida famiglia tradizionale di quelle per le quali si organizzano grandissimi matrimoni, poi diventano litigi in pigiama e si concludono con due amanti e un divorzio.
Agli altri non dicevo proprio nulla, tanto era una fase.
Una sera, tornando da Muccassasina, notoriamente un locale per spacca-fighe, vidi che questo adorabile ragazzo aveva visto il mio profilo su Me2, che per i più giovani è il nonno di Grindr.
Ci siamo visti per un aperitivo che doveva durare un’ora, abbiamo passato 6 ore insieme e io per la prima volta mi sono preso una cotta così forte per un ragazzo che sono passato da “è solo uno studio di ornitologia” a “cazzo mi sono innamorato di un ragazzo” – sì, faccio coming out sono uno di quelli che pensa alla convivenza, al cane e ai figli asiatici dopo 7 minuti di appuntamento, sarà per questo che fuggono tutti.
In ogni caso, la nostra storia va avanti per qualche mese.
Io mi sentivo come Malgioglio quando lo baciava Jeremia Rodriguez.
Poi per lavoro vengo spostato a Milano, lui mi lascia, io inizio ad interpretare l’emigrato che se ne va con la sua valigia di cartone al nord per inseguire il suo sogno e ci perdiamo di vista.
Ci sono persone che ti restano nel cuore, che formano i nostri gusti affettivi e infatti per un tot di anni tutti quelli con cui sono stato sembravano delle copie dell’originale.
Dopo 7 anni, una notte in post serata lo cerco su Facebook, lo trovo, ci rivediamo poco dopo a Milano.
Io mi sentivo già dentro una qualche puntata di Beautiful, una di quelle in cui Taylor torna dall’Africa o dalla morte e può ricominciare il suo sogno d’amore con Ridge.
La sera in cui ci vediamo, dopo due drink al Blanco, scatta un limone durissimo.
Io stavo già pensando al matrimonio quando lui mi dice: devo parlarti da solo.
Cosa che non lascia mai presagire niente di buono.
Quella sera mi dice che in questi anni ha contratto l’HIV.
Io ero completamente impreparato a gestire una notizia del genere e inizio a piangere. Ma tipo a singhiozzi.
Seguono una serie di settimane d’inferno, combattuto tra la voglia di vivere la mia storia d’amore di sempre e la paura di vivere una relazione con un ragazzo sieropositivo.
Paura molto generica, sia chiaro.
Perché mi aveva spiegato che una persona in cura regolarmente, con la carica virale azzerata porta quasi a zero anche la possibilità di contagio.
Quindi paura di cosa?
Dopo molto riflettere, decido che non sarebbe stata una malattia a tenermi lontano dalla persona della mia vita e decido di buttarmi – ovviamente con uno stile da melodramma sudamericano con Grecia Colmenares.
Proviamo a frequentarci e io capisco che no, il problema non è l’HIV ma che in 7 anni siamo cresciuti e cambiati. Che c’era un enorme affetto ma che la nostra storia era finita nel 2006. Lo sarebbe stata comunque, al di là dello stato sierologico.
Perché racconto questa storia?
Sono molto discreto, nonostante sembri diversamente, sulle cose realmente importanti.
Questo tipo di storie fa parte di quelle cose di cui abitualmente non parlo su questo blog: sono cose serie, intime e private, non fanno ridere.
Poi una sera ho visto questo video su gay.it.
E mi sono reso conto di una cosa, pensando alla mia esperienza: la fonte di quegli insulti gratuiti è la paura, la paura dell’ignoto.
La stessa paura che avevo io.
E allora mi sono detto: 50 anni fa anche l’omosessualità era una cosa privata. C’era chi aveva paura di noi. Chi aveva paura che li contagiassimo – qualche mentecatto c’è ancora ma abbiamo fatto enormi passi avanti.
Se qualcuno non si fosse esposto, oggi non potremmo celebrare il nostro amore pubblicamente.
Ecco, allora forse vanno portate le storie di tutti noi in piazza, per cambiare, per eliminare la paura.
Io mi sono fermato e mi sono chiesto: se avessimo veramente paura dell’HIV, non dovremmo forse cambiare le nostre abitudini sessuali, invece che isolare chi è sierpositivo?
Pensiamo razionalmente.
Secondo voi è più sicuro andare a letto con una persona che ci dice di essere sieropositiva e in cura oppure con uno sconosciuto con cui ci si è scambiati 4 foto dell’augello alle 4 del mattino con 6 vodka lemon in corpo?
Per quanto ne sappiamo, il secondo potrebbe essere affiliato alle Bestie di Satana, pensare di farci fuori dopo l’orgasmo o avere una passione sfrenata per Karina Cascella.
Perché le stesse persone (incluso me) che non si fanno problemi a vivere la propria sessualità molto liberamente – ovviamente proteggendosi – hanno poi problemi quando si presenta un ragazzo sieropositivo in cura e con carica virale azzerata (definiti undectetable)?
Bisogna togliere lo stigma, chi è sieropositivo non ha l’outline rosa fucsia del terrore, come qualche idiota che di mestiere fa il pubblicitario ci ha inculcato negli anni ’90.
Ecco, io oggi ho voluto scrivere questo post per G. e per le persone che conosco con la stessa malattia.
Per dire con forza che non ho più paura dell’HIV.
Dopo aver urlato in strada durante i Pride che l’amore non ha genere, oggi voglio urlare che l’amore non ha nemmeno una cartella clinica.
Lo voglio dire per G., per le persone che conosco nella stessa condizione sierologica e per quelli che passano per questo piccolo blog.
Non c’è ragione di avere paura quando si ama.
PS ovviamente non avere paura non vuol dire non proteggersi.
PPS parlo apertamente di malattia perché una sera parlando con G., essendo io in estremo imbarazzo, continuavo a parlare di problema. Fin quando lui non mi chiese di chiamare le cose con il suo nome.
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