
Sono sull’aereo di rientro da Mykonos mentre sto scrivendo questo post sulle note dell’iPhone.
Ho gli AirPods che suonano Carmen Consoli – giusto per affondare completamente nella disperazione del rientro.
Ogni tanto T. e F. mi interrompono per farmi mangiare dolci greci – i maledetti attentano alla mia forma fisica, evidentemente gelosi del fatto che io abbia perso 10kg prima di venire sull’Isola.
Mykonos è uno dei miei posti del cuore. E non perché si scopa facile – non sono mai stato uno di quelli che aspettava di lasciare la città per copulare, sarà per questo che ho una pessima reputazione, come mi ripete S. su Instagram ogni volta che può (tra l’altro, se proprio dobbiamo dirla tutta, questa cosa che la gente ti guarda costantemente con occhi spermatozoici, mi fa sentire mezzo uomo, mezzo dildo, un moderno satiro).
Mykonos è il mio posto del cuore per perché mi fa sentire libero: l’isola è così brulla e ventosa che sembra quasi inospitale ma poi, dietro ad un tornante, a sorpresa, ti trovi con di fronte un panorama mozzafiato, con il cielo e il mare che hanno dei colori che vedi solo qui.
Tutto questo ovviamente in un contesto “cool”: odio le cose trasandate e preferisco stare tra gay con un potere d’acquisto medio/alto in una spiaggia dove ti portano da mangiare mentre sei comodamente disteso su un lettino su cui si potrebbe dormire di notte, invece di stare accalcato tra famiglie, parmigiane, teli mare e bambini urlanti.
Spendo mezzo rene in tre giorni e sono sicuramente una persona orrendamente snob, ma che ce devo fa’, non si può essere perfetti.
Quest’anno sarei dovuto venire a giugno, come ogni anno, per un weekend lungo con T. e F. ma il lockdown ci ha impedito di partire come pianificato.
Non ci siamo dati per vinti, però, e abbiamo riprenotato per luglio.
Poco fa, mentre guardavo fuori dal finestrino, riflettevo sulle sensazioni che ho provato durante questi 3 giorni.
Sul senso di libertà quando ho ballato in un Jackie O’ mezzo vuoto, con un drink in mano dopo sei mesi che non vedevo un locale (dove comunque non vado più di frequente).
Sulla sensazione del vento che travolgeva i capelli mentre ero sul motorino, nonostante il casco.
Sulla libertà di non sentire il calore del mio respiro perennemente intrappolato tra naso e bocca, nella mascherina.
Ma al tempo stesso sulla sensazione di essere “esposto” quando mi alzavo da tavola senza rimettere la mascherina, perché lì la mascherina era obbligatoria solo in macchina (!?) e in aeroporto.
Sulla paura di non poter rivedere i miei che finalmente tornano dalla Francia – dove da quasi due anni sono a fare proselitismo catto-integralista per convertire il popolo più secolarizzato d’Europa al Vangelo e a Santa Romana Chiesa (e non è una battuta purtroppo) – perché devono passare per Barcellona e, cazzo, forse Barcellona la richiudono.
E sul timore di una seconda ondata di covid, che sarebbe un casino per tutti, per l’economia, per il lavoro (il mio in primis), perché la gente continuerebbe a morire e perché, raga, se fanno un altro lockdown di 2 mesi a partire da fine ottobre, si va a Natale.
Sia chiaro, non ho mai amato il Natale ma il solo pensiero farlo da solo chiuso in casa, con il pranzo ordinato su Deliveroo e consegnato a distanza, con i miei genitori in Francia e senza poter vedere mio fratello e mia cognata e i loro figli (saranno due per Natale!) e mia sorella e mio cognato, mi spezza il cuore.
Ora tutto ciò è facilmente sintetizzabile con: mi è salita l’ansia.
Ma credo che ci sia di più.
Mykonos, come sempre, mi ha rimesso in contatto con me stesso.
Mi sono reso conto che per sopravvivere al lockdown, al casino in ufficio quando è scoppiata la pandemia, alla ferita di dover mettere in cassa integrazione ragazzi brillanti due giorni prima di lasciare l’azienda (perché in lockdown sono pure riuscito a dare le dimissioni e a cambiare ben due lavori), ho fatto appello a tutta la mia forza.
Sono del Leone e ho ruggito per salvarmi.
Non ho mollato un cazzo. Se da una parte ho capito che mettere su Google Calendar anche l’ora in cui fare la cacca era inutile perché poi nell’arco di dieci giorni il mondo è capace di mutare ed essere irriconoscibile come Madonna ad ogni nuovo disco, dall’altra ho iniziato a godermi il momento, a scegliere pensando all’hic et nunc. Del resto “del doman non v’è certezza”.
Ho quindi scelto un lavoro che mi diverte tantissimo ma che è una scommessa totale. ‘Sticazzi se ci ho smenato un po’ sulla RAL e se mi rischio la carriera se andasse male: avevo bisogno dell’adrenalina, della sfida. Me la sono presa.
Ho ripreso a fare un po’ il suino perché, diobuono, non si può andare avanti a zagane e sex toys. Oggi si può, domani chissà. Me la sono rischiata.
Ho deciso che la casa in cui vivevo non mi rappresentava più, perché voglio che chi entra capisca che sono un (quasi) quarantenne da sposare e non (solo) uno scapolo impenitente: via di ristrutturazione, revisione del terrazzo, preventivi di vivai.
Volevo questa vacanza con tutto me stesso, perché volevo stare col mio migliore amico, perché volevo vedere il mare delle Cicladi e perché non sappiamo che succederà domani quindi ora o mai più. E quindi viaggio spostato, casa trovata, e pure tampone fatto nel caso in cui ci avessero fermato per i controlli.
Per trovare questa forza di reagire alla situazione, mi sono reso conto in questi giorni che ho preso tutte le paure, le angosce e le sensazioni del lockdown (mio zio che se ne è andato in 9 giorni con mia cugina che non è potuta tornare a salutarlo e mia madre inconsolabile bloccata a Bordeaux, su tutti), le ho impacchettate in un pezzo della mia mente e del mio cuore e le ho ignorate.
Ho passato giorni, settimane, mesi a “non pensarci”, a spostare lo sguardo da un’altra parte per non andare in sbattimento.
Finché in questi giorni mi sono fermato e ho potuto guardarmi dentro (o essendomi finalmente fermato, non ho potuto fare altrimenti), nel posto che amo di più al mondo, dopo casa mia.
Ecco, in questi giorni a Mykonos ho visto per la prima volta il mio trauma di questi mesi.
Ho visto le cicatrici del lockdown.
Ho capito che ho bisogno di elaborarlo, per accogliere un “new normal” – espressione che detesto (forse perché spero che si possa tornare alla normalità come la conoscevamo?).
Da buon adepto della psicoterapia, credo che capire di avere un problema sia il primo passo per risolverlo.
Ma non si tratta solo di me: ci sono reazioni che manifestano shock da ogni parte – e non serve avere una laurea in psicologia per rendersene conto.
Il maledetto video di Mondello e il “qui coviddi non ce n’è” partorito nella trasmissione di Barbara D’Urso sono evidentemente un modo di esorcizzare la paura (peccato che sia una banalizzazione e non un’esorcizzazione).
Il Capitano che, dopo aver recitato gli eterni riposo con la signora di Cologno di cui sopra, non fa che fomentare il malcontento di chi in questi mesi ha vissuto i “disagi” del lockdown senza vivere in una città e in una regione dove l’unico rumore che si sentiva era quello delle ambulanze e dunque gli sembra tutto esagerato, inutile, un modo per “controllarli”.
E poi c’è tutta una parte della mia “bolla”, quella culturalmente preparata ed economicamente benestante, che ha scelto la via dell’”indignazione responsabile”, per riaffermare una superiorità morale che non solo non esiste ma è terribilmente ideologica.
Quello che mi spaventa di più, in sintesi, è questa tensione crescente da tutte le parti, che, per me come per gli altri, mi sembra il frutto di uno shock che ancora non abbiamo affrontato, ammesso, elaborato, uno shock che ci sta rendendo diversi mentre ancora speriamo, poveri scemi, di poter tornare al 19 febbraio 2020.
Non so come andrà a finire, non so se ci sarà un secondo lockdown, non lo so.
So che ho molta paura che le cose vadano in vacca di nuovo, anche per colpa di chi invece di aiutarci a gestire lo shock, ci sguazza dentro.
Ho paura. Ho l’ansia.
Ma quello che Mykonos mi ha ricordato in questi giorni è che il punto non è non avere l’ansia o non avere paura.
Ma non avere paura di guardarsi dentro, perché i nodi si sciolgono così.
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